Chiedere asilo sotto altre stelle, imparare a vivere di prugne in salamoia e Beaujolais. Esibire con sfrontata guasconeria la propria bruttezza come opera d’Arte, come un vecchio e sconcio Sileno. Al mattino raccogliere la condensa dei sogni sui vetri degli abbaini. Percorrere gli anni che restano all’incontrario, verso una gloriosa e infantile senescenza, dimenticando un pezzo al giorno di quello sconosciuto che gli altri per una vita si sono dati tanta pena di importi.
giovedì 26 luglio 2012
sabato 13 febbraio 2010
DUE PASSI NEL GIARDINO
oniamo il caso, estremo e tanto improbabile da apparire pura speculazione metafisica, che un viaggiatore sconosciuto giunga al Giardino.
I più attenti già noteranno che questa è una contraddizione in termini che grida vendetta, un ingiustificabile ossimoro rotolato fuori dalla penna virtuale, per la sciagurata e vile tentazione dello scribacchino di utilizzare incipit già ben collaudati da domatori verbali ben più avvezzi di lui alla scozzonatura di recalcitranti perifrasi.
Un Viaggiatore Sconosciuto: questa entità più vaga d’un ectoplasma, misero artifizio letterario che trova come unica giustificazione esistenziale il fatto di porre i propri occhi su un piatto d’argento al suo unico signore e padrone, lo Scrittore, e risolvere con un infimo trucco da ciarlatano il koan senza tempo del rumore di un albero che cade in una foresta senza traccia dell’uomo.
C’è lui, c’è il Viaggiatore Sconosciuto che vede e sente tutto e tutto rivela al lettore. Che altro potremmo pretendere?
Molto altro, a ben pensarci. Potremmo pretendere dalle parole qualcosa di più del solito piatto riscaldato servitoci da qualche decade ad oggi, potremmo sfidarle a rivelarci la loro intima magia, perché qualcosa ci deve pur essere sotto l’inossidabile “In principio era il Verbo”… Possibile che, parafrasando un musical, fosse tutta pubblicità?
C’è da chiedersi, molto oziosamente e senza affanno, se generazioni di scribi e maghi e creativi dell’immagine siano effettivamente riusciti a plasmare la realtà, oppure è la Realtà che retroattivamente ha costretto i loro cervelli sciamanici a stendere preventivi tappeti rossi per l’avvento che si andava apparecchiando.
Ma via, eravamo rimasti al nostro Viaggiatore Sconosciuto (concetto che, si sarà capito, poco mi convince) ed il Giardino.
Non un giardino, ma il Giardino. Sì, lo so che ve n’eravate accorti, perdonate ma la puntigliosità del mio scrivere è direttamente proporzionale alla noncuranza che impiego nell’esistere.
Il Giardino, si diceva prima di questo intervento (perché non si pensi che un testo faccia scaturire la luce dal Nulla, queste righe vivono soltanto come continuazione di tutto quello che avete letto prima di esso, no?), il Giardino è un luogo che non ammette viaggiatori.
Non ci si snervi a concepire stolidi guardiani di pietra, oscuri alberi tentacolati o invisibili barriere, non c’è alcun bisogno di tutto questo perché il Giardino è sufficiente a se stesso.
Sotto un certo punto di vista – non certo mio, tengo a chiarirlo – il Giardino può essere considerato un personaggio. Solitario, sulle tavole della scena, indefinitamente muto, incurante di fischi o applausi, perfetto nella sua grossolana imperfezione, finito ed eterno.
Tutto è come deve essere, e non c’è nulla da volere più di questo, nulla di più di questa rassicurante e umida immobilità terrosa.
Ma a noi serve un viaggiatore… il Viaggiatore… che abbia l’ardire di penetrare nell’idea del Giardino, perché badate, sarà sempre la sua idea del Giardino. Come dite? Sì, ci stiamo perdendo in insopportabili speculazioni… allora su, indossate gli occhi del vostro Viaggiatore preferito, e guardate.
Inizialmente, lo sguardo si arresta su una coltre compatta di verde, non riuscendo ad andare oltre un fittissimo intrico di felci e rampicanti e muschio spugnoso. È necessario uno sforzo di volontà per spostarsi di lì, perché la sensazione di trovarsi costretti da tutte le parti al centro di una placenta vegetale, cullati dal frinire e dai fruscii di legioni di insetti invisibili, è tanto consolante da annullare qualsivoglia impulso di azione.
Fortunatamente i Viaggiatori Sconosciuti, golem senza madri, trovano poco familiare il concetto di ritorno al grembo materno universale, e ci è concesso proseguire il nostro viaggio grazie alle loro inesistenti gambe.
Confortati dalla mancanza dell’insopportabile libero arbitrio, propria degli eroi letterari, facciamoci largo tra cateratte di buganville spruzzate di violetto, scostiamo la cortina di edera e vilucchi lanosi, dove sgambettano microscopici ragnetti dagli occhi prismatici, spingiamoci ad aggirare il tronco del vecchio leccio, la corteccia intessuta di finissime cicatrici, simile alla scrittura cuneiforme di una minuscola popolazione di formiche sapienti.
Da lì, lo sguardo si spinge su un praticello rigoglioso d’erica e punteggiato dal giallo e sanguigno di dalie e calendule, e corre a superare, quasi ne fosse intimamente disturbato, un piccolo appezzamento di erba contorta, carica di rugiada, dal quale si solleva il respiro di un vapore leggero, quasi esalazione fisica di segreti malesseri vegetali.
lunedì 25 gennaio 2010
MILANO, QUALCHE VITA FA

Mi guardo le dita, sfregando i polpastrelli, sporchi di grafite.
Mi sarebbe piaciuto carezzar corde, come si carezza la pelle di una donna e la sua seta.
A grandi passi il ballerino entra e la stanza trattiene il respiro.
Rumori di tacchi che percorrono corridoi di albergo, al primo mattino, quando si svegliano voci senza corpo di inservienti e fantasmi.
Forse da qualche parte ci sei anche tu.
Un fondale di città e, sopra, l’abbozzo della mia figura tratteggiata sul vetro.
Il ballerino ingaggia una lotta contro il vuoto, lacerando un pomeriggio di gechi e polvere.
L’Universo pesa sul letto, coperta ruvida color caffellatte e lenzuola a prestito.
Là fuori da qualche parte è nato il tango, nei miasmi fetidi di qualche giungla, gigantesche madri color ebano e seni lucidi di olio e sale.
Da qualche parte sono nato io, in questo albergo di stanze che sbadigliano e radio che bisbigliano.
Il ballerino volteggia diabolico, biblici denti che stridono con suono di ottoni e motori scarburati.
Qualcuno mi ha dato la chiave sbagliata.
mercoledì 20 gennaio 2010
REPRISE
Mi sono accorto di essere partito nella maniera sbagliata con questo blog. Al solito, mi sono imposto standard elevati che non sono riuscito poi a mantenere. È anche vero che i miei parametri di riferimento sono Buddha e William Burroughs, ma, per citare il grande Woody, se uno deve scegliersi un modello chi si sceglie, il portiere del condominio?
Oltretutto il mio ha più di 80 anni ed il suo interesse maggiore è quello di fissare i citofoni, non lo vedo come un forte incentivo al miglioramento. Magari ha anche l’hobby di leggere blog, e se sta leggendo questo mi sono reso difficile la vita (un portiere sa fartela pagare, se vuole), ma tant’è… sopravviverò anche a questa.
Dopo un periodo scorpionico in cui ho bazzicato i bassifondi della mia anima, tra Largo della Autocommiserazione e Viale dell’Inadeguatezza… sì, proprio dalle parti di Viale Malinconico e Parco dei Rimpianti!, ritorno in barca e mi avventuro nelle acque a me consuete, quelle della scrittura.
Che sia discreta o pessima non sta a me dirlo, ma di fatto riempire spazi bianchi definisce al meglio il mio essere al mondo, come neanche il canto di antichissimi mantra o la contemplazione del proprio Sé può fare. (Il Sé…?. Seeeee…)
Uno stare al mondo che fino a poco tempo fa pensavo potesse essere meno solitario, ma in questi giorni viola di intenso Kali Yuga non si può fare troppo le mammolette. Sento già le urla del Sergente Karmico dritte nelle orecchie: “COSA ABBIAMO QUI? UNA FOTTUTA SIGNORINA? TIRA FUORI LE PALLE SPIRITUALI SOLDATO!!!”
(Tengo a dissociarmi dal linguaggio politically incorrect di quest’ultima frase, non è il mio ma quello della mia parte yang inconscia, ho tutto il rispetto di questo mondo per signorine e signorini, specialmente se fottuti,e anelo alla loro frequentazione.)
Insomma, rieccoci in barca, a scrivere nelle grandi onde dell’Etere. Le vele si gonfiano, l’orizzonte è incerto, e ho già nostalgia di una terra mai vista.
Stiamo a vedere.
venerdì 27 novembre 2009
KAFKA IN TRATTORIA

Si scrive per ambizione, si scrive per dimostrare qualcosa a se stessi e al mondo, spesso si scrive per amore o per disprezzo delle parole stesse, diventando strumenti dello strumento; si scrive per vendere un tanto al chilo, rimestando nel calderone delle parole già dette e già sentite, ravanando nei cantucci più nascosti dei magazzini interiori, dando fondo ai prodotti scaduti, sperando che il pubblico non noti il trucco, o segretamente augurandoselo.
Si scrive e si pensa di scrivere, fino a che nell’animo avviene qualcosa di strano, nel brodo primordiale delle reazioni sinaptiche avviene una piccola teofania, un rimasuglio di divinità venuta chissà dove s’incarna nei gangli e dà forma ad una specie di buffo idolo, un vitello dalla finta doratura, misero scrigno di alleanza tra il fango dell’esistere e i nostri ideali.
E diamo voce a questo anelito e lo chiamiamo “LETTERATURA”
Osserviamo allora con attenzione questo esemplare di pensatore, guardiamolo affannarsi nell’esistere come arrancando immerso in pozze fetide e ghiacciate, mente e animo levati alla sua Dea personale e salvifica, LETTERATURA.
Che se fosse una specie di codice, più o meno morale, utile al mero atto di scrivere, come se ne potrebbe parlar male?
Invece diventa un surrogato di vita, una dirittura, una meta lontana e sognata, irreale agli stessi occhi del sognatore e tanto più ambita quanto infantile, stentata come la spiegazione di un pazzo.
E per questo piccolo dio nato nelle nostre putredini, il novello zelota si oppone fieramente alla vita, e a tutto quello che gli puzza di realtà. Fino a trovarsi a non discernere più un senso nelle cose, fino a interpretare il senso nascosto di una serata al ristorante con i paragrafi ossessivi di American Psycho, o il senso di solitudine tra gli umani con il dandismo campagnolo di Landolfi, spedendo emissari alle lontane contrade della sua memoria, come in quel racconto di Buzzati, aspettando invano una risposta…
E intanto la serata scorre, e le bocche, dalle facce, si rimbalzano argomenti, belli rotondi e lucidi come mele di cera, argomenti da accarezzare e palleggiarsi, senza mai correre il rischio di addentarli per scoprirne il nocciolo di luce, od il fetido marciume.
Ho rovesciato il mio vitello d’oro, ma non mi rimane altro, ormai da tempo non posso vivere più nella tribù.
Il corpo ti frega, il corpo è il primo nemico di questa cosa chiamata LETTERATURA.
Forse perché il corpo è l’antitesi dell’astrazione, il corpo è il qui e ora, lo scrivere è dietro e avanti, ma qui, mai presente.
Kafka, dolcissimo martire, l’aveva capito prima di tutti noi, sottoponendo il suo alter ego di carta alla tortura della Macchina nella colonia penale, che incideva nella carne, all’infinito, le righe che ci restano da scrivere.
Già, le righe che ci restano da scrivere… Per chi o per cosa? Per la gloria, per i nostri “simili”? O per risvegliarci da questo sogno, e trovarsi catapultati in un altro?
“E svegliandosi un mattino da sogni inquieti, M.F si ritrovò nel suo letto trasformato in un umano gigantesco, e passò la restante vita a rimpiangere gli splendidi giorni di scarafaggio.”