Nessun sogno è mai stato così insensato come la sua spiegazione. (Elias Canetti)

venerdì 3 agosto 2012

HATCHET II

Penso che un vero appassionato di film horror sia sotto sotto un tantino masochista, e personalmente questo masochismo l’ho pienamente espresso decidendo di sottopormi alla visione di HATCHET 2, non contento della pur esaustiva opera prima, HATCHET (1).

Il film comincia esattamente dalla fine del primo, quando il mostruoso Victor Crowley afferra l’eroina (che pensavamo ormai spacciata), ma quest’ultima gli infila un grazioso dito laccato di rosso nell’occhio e riesce a fuggire via.

Da questo momento, eccettuato un gradevole intermezzo dove Crowley gioca al tiro alla fune con le budella di un pescatore colpevole di aver aiutato la ragazza (che poi è la nipote di uno degli aguzzini di Crowley, chiaro no?), ci sono tre quarti d’ora di nulla, o poco più, dove la fanciulla alterna piagnucolamenti vari a ferrei propositi di vendetta.

I tentativi di comicità sono i momenti più agghiaccianti, a mio modo di vedere (negli slasher movie in generale e in questo film in particolare), e rabbrividisco ancora al ricordo di tutte le insopportabili battute del personaggio Vernon, il simpaticone coloured del gruppo che (purtroppo) sarà solo l’ultimo ad essere giustamente sminuzzato.

Dopo che il Reverendo Zombie (interpretato dall’eccellente Tony “Candyman” Todd, qui al minimo sindacale, ma non lo biasimo) ha messo su una banda di mercenari, ecco che si parte all’avventura nelle paludi della Lousiana, regno del tremendo Victor Crowley.

Da qui il copione è unico. La parola d’ordine sembra quella di ogni horror: “Il luogo è pericoloso, anzi mortale. Quindi non possiamo fare a meno di dividerci e cazzeggiare !”

Dal gruppone i personaggi si isolano (chi per farsi una scopata, chi per pisciare, chi senza scuse, solo per conclamata stupidità) e vengono ovviamente fatti a pezzi da Crowley.

I tentativi di dare spessore alla storia spiegando il passato di Crowley e il motivo della sua maledizione appesantiscono soltanto la narrazione, raddoppiando noiosamente le informazioni ripetute. Si salva un singolo FLASHBACK, forse il miglior momento horror del film, dove si vede il padre di Crowley maledetto dalla moglie in fin di vita per averla tradita con l’infermiera creola (sì, lo so, non sindachiamo…)

Insomma, che dire… Non sono un amante degli slasher anni 80, e quindi non sono il più adatto a giudicare una pellicola del genere, ma questo Hatchet II non credo possa piacere più di tanto neanche agli appassionati.

Ah, per inciso ho preferito questo al primo.

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giovedì 2 agosto 2012

VENEXIA (l’arte di Luigi Di Giammarino)

Angelo 
Se è vero che tutte le città sono un simbolo, alcune lo sono più di altre. Venezia è uno di quei luoghi dove un artista, per quanto bravo ed entusiasta, corre il rischio (e ne ha tutto il diritto!) di perdersi nel dedalo dell’infinita replica di ponti e campielli, già visti e digeriti sul bianco di altre tele o di pagine scritte, di vedersi annegare matite e pennelli nella marea montante di riferimenti, citazioni, echi e fantasmi che fanno di Venezia e delle altre Città (ma Venezia in particolare) un luogo dove è meglio non spingersi troppo oltre, se non si vuole impantanarsi nella laguna della pur legittima rappresentazione agiografica o dell’intimismo autoreferenziale.
Luigi Di Giammarino sceglie la terza via, o forse è più esatto dire viene scelto da essa. Luigi si lascia andare al Sogno.
La coerenza a-razionale con cui si presenta Venexia ci spinge subito a comprendere che siamo di fronte a un professionista del viaggio onirico, ben conscio dei rischi di un facile gioco di automatismi. Luigi viaggia nel sogno non subendone la dittatura, ma anzi creando passo dopo passo il terreno su cui posa i piedi.
Non è un caso che i personaggi che popolano la Venexia di Luigi siano musicisti, pittori, poeti… anime creatrici che, ben lungi da un indolente riposo nei Campi Elisi dell’Immaginario, si rimboccano le maniche e perseguono il compito occupato in vita: creare realtà o, per usare le parole di un altro grande Sognatore recentemente scomparso come James Hillmann, fare Anima.
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C'é Hundertwasser in basso a destra, che annaffia una sorta di giardino secessionista da cui fioriscono immagini; in alto campeggia con finta cupezza l’Isola dei Morti di Bocklin che nell’immaginario splendidamente distorto di Luigi diventa quasi un “memento vivi”.
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C'é un omino di Magritte, con valigia, che passeggia lungo il canale, alla sinistra.
L'angelo è un musicista di strada, un alter ego giovanile dello stesso Luigi, testimone del periodo in cui l’artista ha vissuto e lavorato nella Venezia “reale” (qualsiasi valenza vogliamo dare a questo abusato termine).
Venexia è la lucida traccia del sogno percorso da Luigi sul terreno mnemonico dell’altra Venezia, quella “vera”. Venexia è la città creata dall’arte di Luigi e dei suoi indaffarati alter ego, una città dipinta che a sua volta crea i propri creatori.
Non si pensi ad un mero gioco di parole perché dietro l’arte onirica di Luigi c’è una dichiarazione programmatica di intenti che farebbe l’invidia di un implacabile giacobino. Il patto tra Luigi è il suo inconscio è la base del modus operandi che l’artista (forse indipendentemente anche dalla propria volontà) si è imposto sin dagli inizi.
Nelle sue opere (che siano tele, disegni o “semplici” tavole a fumetti) l’estrema libertà della materia (di cui sono fatti i sogni?) è solamente apparente, basta scostare i veli o guardare con occhio appena un poco smaliziato per accorgersi che il Gioco è retto da regole ferree, ben note ad ogni Sognatore.
Nel sogno si entra in un altro continuum dove le leggi della veglia non hanno più valore, tra queste il principio logico dell’identità: il sognatore può incarnare più persone contemporaneamente, a volte anche in conflitto tra loro.
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I personaggi sognati e rappresentati da Luigi sono tutt’altro che in cerca di autore.
Osserviamoli: essi passeggiano in tutta tranquillità negli interstizi di realtà aliene e domestiche, la loro operosità nel creare qualcosa dal nulla ci fornisce l’indizio che dietro ogni maschera si nasconda un solo essere, un solo sognatore. Un fabbricatore di Anima. L’Artista? È questa la (troppo) facile risposta?
Per sua stessa ammissione, il percorso artistico di Luigi è stato fortemente segnato dalla scoperta del movimento Surrealista e dal cinema di Luis Bunuel, che l’ha spinto verso la ricerca della potenza dei sogni e la sperimentazione del metodo della scrittura automatica, uno degli strumenti più importanti della tecnica di scrittura surrealista. Luigi ha poi applicato questo metodo al disegno e alla scelta dei temi per le sue opere.
Sappiamo che l’obiettivo della scrittura automatica è quello di ridurre la censura della razionalità, ovverosia gettare un ponte (sia esso d’oro o di liane sfilacciate) oltre il baratro dell’Inconscio, lì dove ci dicono dimorino i mostri alla guardia di favolosi tesori.
Questo è ciò che Luigi fa, con l’onesta e muta pervicacia di un monaco amanuense. Ciò che fortunatamente tralascia è la freddezza medica comune a certi esecutori di teorie psicanalitiche (chissà perché più ci si addentra nella psiche più ci si sente in debito nei confronti del positivismo…)
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Quello di Luigi invece è lo stesso entusiasmo del bambino che sale per la prima volta sullo sgangherato carrello del Luna Park di paese e vede spalancarsi la bocca del Tunnel delle Meraviglie e degli Orrori.
Luigi è il primo a stupirsi dei richiami simbolici che vengono a far visita ai suoi paesaggi, paesaggi che in un certo modo servono unicamente a evocare altre presenze, genii loci benigni, suggestioni e riferimenti non fini a se stessi ma materiale pulsante del suo “artigianato onirico”.
Sono le stesse “citazioni” a farsi carne (e materia cromatica) e quindi farsi sogni.
Sono i sogni a dettare a Luigi, alla maniera della scrittura automatica, i paesaggi in cui passeggiare.
Tutto proviene da quest’unica matrice, l’Etere dinamico dell’Immaginario onirico, ed ecco che la cartesiana divisione tra paesaggio e figura diventa questione arbitraria: volti si affacciano tra gli alberi, colombe sbocciano dalla pietra e corpi di allungano in amene vallate medievali.
Tenendo conto di tutto questo, il sospetto che le figure che popolano il mondo infero e psichico di Luigi siano solo maschere dietro le quali si nasconda la faccia dell’autore… è confermato solo in una minima parte. Queste mute creature, talmente fragili da non poterle immaginare vivere in nessun altro posto al di fuori di un sogno, questi teneri e inquietanti psychai, sono sì una maschera dietro la quale si nasconde il volto dell’Artista, ma anche questo volto è una maschera, dietro la quale, se abbiamo il coraggio o l’impudenza di sbirciare, non troviamo altro che uno specchio che riflette la nostra immagine.
Forse il nucleo di tutto il lavoro da operaio dell’immagine di Luigi si può riassumere in una domanda (al momento senza risposta): chi crea l’Arte? È la Memoria? Il Sogno? L’Arte è negli occhi di chi la guarda? O forse è l’opera stessa ancora prima di essere creata, nella sua forma di tela bianca, a dettare le linee della sua futura realizzazione?
È rassicurante vedere come la pittura mutante di Luigi affondi le radici nella tradizione contadina e brugeliana, non ci stupiremmo più di tanto nel vedere gli affabili mostri metamorfi di Luigi portar a spasso oche o intenti in una quadriglia.
Perché tutti i riferimenti, da quelli “dotti” del surrealismo a quelli pop, in Luigi diventano “italiani” nel senso più alto della parola.
Una lezione, o forse solo un suggerimento, quanto mai attuale.
Venezia