Nessun sogno è mai stato così insensato come la sua spiegazione. (Elias Canetti)

domenica 20 dicembre 2009

IL DEMONE SUL DAVANZALE (simpathy for a little devil)




L’altra sera proprio non riuscivo a prendere sonno.
Il vento scuoteva con rabbia le tapparelle e faceva vibrare i vetri, causando un uggiolio acuto, fastidioso come il sordo risveglio di una carie nel mezzo della notte.
Sotto le coperte, mi stavo lasciando cullare da pensieri masochistici, vedendomi senza ragione abbandonare le coltri ed affrontare la strada, urlante e gelida. Nella mia fantasia la strada era un tunnel dove sfrecciavano foglie e cartacce, alberi e cani, e uomini naturalmente, tutti accomunati nell’impotenza di fronte all’infantile crudeltà del mostruoso fenomeno atmosferico.
Qualcosa, ad un certo punto, mi riscosse dalla rassicurante inutilità delle mie visioni.
La vibrazione sembrava essersi alzata di un’ottava, e s’era fatta stridente, quasi al di là della soglia dell’udibile.
C’era qualcosa di terribilmente sbagliato in quel suono: la notizia terribile che ti si aggrappa al collo in una giornata di sole, ed instaura immediatamente un regno di oscurità nel tuo cuore; lo sguardo compassato di un medico che cerca le parole giuste; il fischio di un treno che si allontana; le oscurità oblique di uno specchio.
Senza neanche rendermene conto mi trovai in piedi alla finestra, il contatto freddo del vetro sotto il palmo delle mie mani.
La aprii, la tapparella era alzata per metà. Là fuori il vento spazzava stupidamente la strada, ma la sua forza non era apocalittica come l’avevo immaginata.
Sul davanzale c’era un piccolo corpo nudo, nero, lucido di umidità. Poteva ricordare vagamente una lontra, piccole mani unghiute abbarbicate al muro, occhietti intelligenti e spalancati nel buio della notte.
Il piccolo demone si rivolse a me sputandomi contro la sua voce esile, quasi cancellata dall’ululare del vento.

Tutto quello che rendeva la tua vita degna di essere vissuta finisce, ora e in questo momento. Sono qui per divorarti l’anima, sono qui per strapparti il cuore. Rovescerò il giorno con la notte e vivrai sotto il sole dell’estate l’oscurità delle piogge invernali. Ti sussurrerò disperazione e scontento mentre giaci a fianco del tuo amore. Guiderò la tua mano per vergare parole smarrite nel tuo diario. Sottrarrò i colori alla tua vita, riempirò di buio gli spazi tra i tuoi pensieri…
Mentre il demone così mi diceva, la sua voce si faceva sempre più flebile e affrettata, inframmezzata da leggeri singulti.
Guardai nei suoi occhi umidi, due piccole biglie di onice incastonate in una prugna di muso.
Vidi una vita tranquilla trascorsa a compiere un onesto da lavoro da demone, costruendo giorno dopo giorno un piccolo inferno domestico. Vidi il vecchio del quinto piano, rituali eterni, pigiama a righe e radiolina accesa fino a tarda notte. In dieci anni ci avevo scambiato sì e no quattro saluti, e da tempo non l’avevo più visto. Poi i ringraziamenti della famiglia, lasciati su un fogliettino bianco tra le sbarre del portone del palazzo. Una piccola morte invisibile e tranquilla.

Ti strapperò il cuore. Ucciderò le tue speranze. Dipingerò i tuoi incubi. Devo farlo, sai…
La voce del demone era quasi intollerabile, ora, così stridula e debole. Le minuscole mani graffiavano senza forze il vetro della finestra, aperta per metà. I suoi fianchi tremavano come quelli di un piccolo cagnetto al gelo dell’inverno.
Ancora una volta, l’ultima, vidi un’immagine sepolta nella profondità dei suoi occhi (mi sono poi convinto che la comunicazione tra demoni deve svolgersi così, tra sguardi, e le parole servano ad esprimere soltanto minuziosi rituali codificati a cui la popolazione infernale è costretta ad attenersi, da tempo immutabile, per volontà di Colui che perdona tutti, tranne i demoni).
Lo vidi aggrappato a quel pigiama a righe, al caldo di una stanza dalla luce soffusa, ascoltare il borbottio del latte riscaldato, e le voci della radio che infestano le stanze buie.
Lo vidi nascosto nel fondo di un armadio, tra vecchie fotografie ingiallite ed una scatola di bretelle, mentre gli estranei di famiglia trafficano nelle stanze, ed il corpo viene spogliato del pigiama a righe e portato via.
Aprii del tutto la finestra, permettendo ad una ventata astiosa di scompigliare i fogli sulla mia scrivania.
Le manine del demone si aprirono come le zampe di un geco, scivolando lungo il vetro ghiacciato.
Schiumante di rabbia e di brina, il vento aumentò la sua voce, facendomi fare un passo indietro, come ostacolato da una invisibile barriera.
Gli occhietti di onice si chiusero per un momento, abbagliati dalla luce della mia lampada notturna, e sembrarono ammiccare, persi in qualche piccolo ricordo da demone.
Poi le manine non fecero più presa ed il vento lo prese del tutto.
Vidi il piccolo corpo trasportato dal vento, che ora aveva perso parte della sua rabbia, e gemeva come un gigante addolorato.
Mi sembrò di scorgere una cosa nera e lucida rimbalzare su un cornicione, e poi perdersi del tutto nello spazio oscuro che circonda la Luna, più nero del nero, ma forse era solo un sacchetto di plastica per l’immondizia.
Chiusi la finestra e, come in una canzone di Dylan, poggiai la fronte sul vetro e mi misi a piangere.
Quel piccolo demone mi aveva strappato il cuore.

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