Nessun sogno è mai stato così insensato come la sua spiegazione. (Elias Canetti)

venerdì 27 novembre 2009

KAFKA IN TRATTORIA


Si scrive per ambizione, si scrive per dimostrare qualcosa a se stessi e al mondo, spesso si scrive per amore o per disprezzo delle parole stesse, diventando strumenti dello strumento; si scrive per vendere un tanto al chilo, rimestando nel calderone delle parole già dette e già sentite, ravanando nei cantucci più nascosti dei magazzini interiori, dando fondo ai prodotti scaduti, sperando che il pubblico non noti il trucco, o segretamente augurandoselo.
Si scrive e si pensa di scrivere, fino a che nell’animo avviene qualcosa di strano, nel brodo primordiale delle reazioni sinaptiche avviene una piccola teofania, un rimasuglio di divinità venuta chissà dove s’incarna nei gangli e dà forma ad una specie di buffo idolo, un vitello dalla finta doratura, misero scrigno di alleanza tra il fango dell’esistere e i nostri ideali.
E diamo voce a questo anelito e lo chiamiamo “LETTERATURA”
Osserviamo allora con attenzione questo esemplare di pensatore, guardiamolo affannarsi nell’esistere come arrancando immerso in pozze fetide e ghiacciate, mente e animo levati alla sua Dea personale e salvifica, LETTERATURA.
Che se fosse una specie di codice, più o meno morale, utile al mero atto di scrivere, come se ne potrebbe parlar male?
Invece diventa un surrogato di vita, una dirittura, una meta lontana e sognata, irreale agli stessi occhi del sognatore e tanto più ambita quanto infantile, stentata come la spiegazione di un pazzo.
E per questo piccolo dio nato nelle nostre putredini, il novello zelota si oppone fieramente alla vita, e a tutto quello che gli puzza di realtà. Fino a trovarsi a non discernere più un senso nelle cose, fino a interpretare il senso nascosto di una serata al ristorante con i paragrafi ossessivi di American Psycho, o il senso di solitudine tra gli umani con il dandismo campagnolo di Landolfi, spedendo emissari alle lontane contrade della sua memoria, come in quel racconto di Buzzati, aspettando invano una risposta…
E intanto la serata scorre, e le bocche, dalle facce, si rimbalzano argomenti, belli rotondi e lucidi come mele di cera, argomenti da accarezzare e palleggiarsi, senza mai correre il rischio di addentarli per scoprirne il nocciolo di luce, od il fetido marciume.
Ho rovesciato il mio vitello d’oro, ma non mi rimane altro, ormai da tempo non posso vivere più nella tribù.
Il corpo ti frega, il corpo è il primo nemico di questa cosa chiamata LETTERATURA.
Forse perché il corpo è l’antitesi dell’astrazione, il corpo è il qui e ora, lo scrivere è dietro e avanti, ma qui, mai presente.
Kafka, dolcissimo martire, l’aveva capito prima di tutti noi, sottoponendo il suo alter ego di carta alla tortura della Macchina nella colonia penale, che incideva nella carne, all’infinito, le righe che ci restano da scrivere.
Già, le righe che ci restano da scrivere… Per chi o per cosa? Per la gloria, per i nostri “simili”? O per risvegliarci da questo sogno, e trovarsi catapultati in un altro?

“E svegliandosi un mattino da sogni inquieti, M.F si ritrovò nel suo letto trasformato in un umano gigantesco, e passò la restante vita a rimpiangere gli splendidi giorni di scarafaggio.”

1 commento:

  1. Sono il solito anonimo. La ricerca dell'arte per l'arte, dell'arte che sostiene l'arte non è un po' come capire da dove viene il pensiero ? Bhò ? Per quanto mi riguarda uno scrittore ha la stessa attitudine di un imbianchino o un impiegato delle poste: fa il suo lavoro e cerca di farlo bene. La teofania semmai avviene nel come lo si fa.

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