Nessun sogno è mai stato così insensato come la sua spiegazione. (Elias Canetti)

sabato 13 febbraio 2010

DUE PASSI NEL GIARDINO

(1) Lettera P oniamo il caso, estremo e tanto improbabile da apparire pura speculazione metafisica, che un viaggiatore sconosciuto giunga al Giardino.
I più attenti già noteranno che questa è una contraddizione in termini che grida vendetta, un ingiustificabile ossimoro rotolato fuori dalla penna virtuale, per la sciagurata e vile tentazione dello scribacchino di utilizzare incipit già ben collaudati da domatori verbali ben più avvezzi di lui alla scozzonatura di recalcitranti perifrasi.

Un Viaggiatore Sconosciuto: questa entità più vaga d’un ectoplasma, misero artifizio letterario che trova come unica giustificazione esistenziale il fatto di porre i propri occhi su un piatto d’argento al suo unico signore e padrone, lo Scrittore, e risolvere con un infimo trucco da ciarlatano il koan senza tempo del rumore di un albero che cade in una foresta senza traccia dell’uomo.
C’è lui, c’è il Viaggiatore Sconosciuto che vede e sente tutto e tutto rivela al lettore. Che altro potremmo pretendere?
Molto altro, a ben pensarci. Potremmo pretendere dalle parole qualcosa di più del solito piatto riscaldato servitoci da qualche decade ad oggi, potremmo sfidarle a rivelarci la loro intima magia, perché qualcosa ci deve pur essere sotto l’inossidabile “In principio era il Verbo”… Possibile che, parafrasando un musical, fosse tutta pubblicità?
C’è da chiedersi, molto oziosamente e senza affanno, se generazioni di scribi e maghi e creativi dell’immagine siano effettivamente riusciti a plasmare la realtà, oppure è la Realtà che retroattivamente ha costretto i loro cervelli sciamanici a stendere preventivi tappeti rossi per l’avvento che si andava apparecchiando.
Ma via, eravamo rimasti al nostro Viaggiatore Sconosciuto (concetto che, si sarà capito, poco mi convince) ed il Giardino.
Non un giardino, ma il Giardino. Sì, lo so che ve n’eravate accorti, perdonate ma la puntigliosità del mio scrivere è direttamente proporzionale alla noncuranza che impiego nell’esistere.
Il Giardino, si diceva prima di questo intervento (perché non si pensi che un testo faccia scaturire la luce dal Nulla, queste righe vivono soltanto come continuazione di tutto quello che avete letto prima di esso, no?), il Giardino è un luogo che non ammette viaggiatori.
Non ci si snervi a concepire stolidi guardiani di pietra, oscuri alberi tentacolati o invisibili barriere, non c’è alcun bisogno di tutto questo perché il Giardino è sufficiente a se stesso.
Sotto un certo punto di vista – non certo mio, tengo a chiarirlo – il Giardino può essere considerato un personaggio. Solitario, sulle tavole della scena, indefinitamente muto, incurante di fischi o applausi, perfetto nella sua grossolana imperfezione, finito ed eterno.
Tutto è come deve essere, e non c’è nulla da volere più di questo, nulla di più di questa rassicurante e umida immobilità terrosa.
Ma a noi serve un viaggiatore… il Viaggiatore… che abbia l’ardire di penetrare nell’idea del Giardino, perché badate, sarà sempre la sua idea del Giardino. Come dite? Sì, ci stiamo perdendo in insopportabili speculazioni… allora su, indossate gli occhi del vostro Viaggiatore preferito, e guardate.
Inizialmente, lo sguardo si arresta su una coltre compatta di verde, non riuscendo ad andare oltre un fittissimo intrico di felci e rampicanti e muschio spugnoso. È necessario uno sforzo di volontà per spostarsi di lì, perché la sensazione di trovarsi costretti da tutte le parti al centro di una placenta vegetale, cullati dal frinire e dai fruscii di legioni di insetti invisibili, è tanto consolante da annullare qualsivoglia impulso di azione.
Fortunatamente i Viaggiatori Sconosciuti, golem senza madri, trovano poco familiare il concetto di ritorno al grembo materno universale, e ci è concesso proseguire il nostro viaggio grazie alle loro inesistenti gambe.

(2) albero Confortati dalla mancanza dell’insopportabile libero arbitrio, propria degli eroi letterari, facciamoci largo tra cateratte di buganville spruzzate di violetto, scostiamo la cortina di edera e vilucchi lanosi, dove sgambettano microscopici ragnetti dagli occhi prismatici, spingiamoci ad aggirare il tronco del vecchio leccio, la corteccia intessuta di finissime cicatrici, simile alla scrittura cuneiforme di una minuscola popolazione di formiche sapienti.
Da lì, lo sguardo si spinge su un praticello rigoglioso d’erica e punteggiato dal giallo e sanguigno di dalie e calendule, e corre a superare, quasi ne fosse intimamente disturbato, un piccolo appezzamento di erba contorta, carica di rugiada, dal quale si solleva il respiro di un vapore leggero, quasi esalazione fisica di segreti malesseri vegetali.


Tra pini e ginepri, che frusciando si mormorano innocue confidenze, la quercia secolare alza la schiena contorta, simile a un vecchio scontroso e solitario che mostra insofferenza per i suoi più giovani compari, ma è costretto a subire obtorto tronco la loro compagnia, segretamente compiaciuto della sua tolleranza, perché inconsciamente consapevole che la tanto fantasticata solitudine sarebbe una costrizione ben peggiore.
Quasi poggiata sul fusto nerastro della quercia, la casa appare tra gli arbusti, inaspettata come un paradosso. Il Viaggiatore si sente subito esposto all’attenzione stupefatta delle grandi finestre sgranate, che poco o nulla rivelano delle stanze, oscurate da strati di polvere e lordura passati come mani di vernice sul vetro spesso.
Questa, sappi, mio rispecchiante Lettore, è la Casa degli Orologi, dove il tempo misura se stesso, senza addossarsi il fastidio di alcun riscontro esterno. Lancette e pendole e canalini di sabbia scandiscono in eterno unità temporali che si rapportano le une con le altre, in caleidoscopiche geometrie di ore e minuti e infrasecondi, ma nessuna fastidiosa marea, nessun disco solare con il suo ottuso arrancare nella volta del cielo viene a turbare, con la sua imprecisa realtà, quel cosmo conchiuso di misurazioni effettive e regolate.
Naturalmente, visto che la Casa rifiuta qualsiasi concetto platonico di “tempo effettivo”, ogni macchina temporale ivi presente afferma con forza un proprio tempo.
Nell’interno della casa si snodano giogaie di pareti di vecchi orologi, pendole, meridiane senza sole, clessidre di sabbia, acqua o polvere, spesso vuote di sabbia, acqua (evaporata da secoli) e polvere.
Il ticchettare di ingranaggi è continuo ed ossessivo, più volte interrotto da improvvisi scampanii o carillon scordati.
Probabilmente c’è qualcuno che si impegna, per diversivo o imposto vincolo, ad aggirarsi tra queste stanze prendendosi cura di alcune di queste macchine temporali, oliandole e caricandole, prolungando la loro inutilità per un tempo indefinito, ma cadenzato e puntigliosamente misurato.
Probabilmente… ma non interessa, né a noi, né al Nostro golem letterario.

(3) pendola Passiamo invece al piano di sopra, dove i bassi soffitti delle stanze seguono la linea declinante del tetto, ed il Viaggiatore, se ivi transitasse, sarebbe costretto a chinarsi per procedere oltre, beninteso se fosse dotato di testa, oltre che di occhi.
In queste stanze il tramestio meccanico degli orologi giunge attutito, non più che un irregolare ronzio, un tinnito, una fastidiosa irregolarità del silenzio.
Qui vive un Mago.
In precedenza abbiamo guarnito il nostro fittizio ambasciatore, il cosiddetto Viaggiatore, con l’ambita onorificenza della Maiuscola, ed a maggior ragione ci sentiamo costretti ad appuntare lo stesso fregio sul bavero del Mago, che in qualche goffa misura risulta il protagonista di questa storia.
La maiuscola pesa sul nostro mago come l’enorme cappello tarmato di un decrepito stregone, imposta e malvoluta eredità, poiché, si sappia, in realtà trattasi di un piccolo mago, poco più di uno scricciolo di mago, un maghetto da poca cosa.
Ma pur sempre mago, e quindi, Mago.
Il Mago è uso passare il suo tempo in soffitta, disdegnando le altre stanze del vasto piano superiore, che del resto non accolgono alcun oggetto o creatura sostanzialmente interessante, almeno per i canoni del nostro nuovo personaggio.
La soffitta, al tempo stesso regno incontrastato e reclusorio del piccolo Mago, è di fatto un magazzino degli oggetti più disparati, resti di chissà quali mirabolanti storie, relitti abbandonati di antiche saghe, forse, o pezzi di collezioni interrotte, ora finalmente approdati ad una nuova, banale e meravigliosa unicità.
Cavalli di legno di giostre perdute, i fianchi lignei ancora lucidi per il ricordo delle loro galoppate circolari; aggrottati mascheroni di divinità trascurate a scapito di altre fedi; baffuti olii di avi arcigni, forse arcimaghi o forse ciarlatani; libroni dalle fauci giallastre aperti su pagine istoriate di capillari grafie; giocattoli, trottole e quant’altro ancora.
Di fronte ad una riproduzione di un piccolo teatro, una platea di bambole e pupazzetti sta tutta compunta a fissare le minuscole tende, perennemente richiuse.
Davanti a questo pubblico, il Mago fa le sue magie.
Solitamente è un buon pubblico, ma da qualche tempo il Mago ha cominciato a stancarsi della fissità di quegli occhi di bilia e sogna applausi più calorosi, e sorrisi e colpi di tosse.
Ogni tanto interrompe sul più bello un trucco, e quasi soprappensiero va alla finestra, dove un ramo mosso dal vento picchietta una marcetta sul vetro.
Da lì, il Mago guarda il Giardino, e solitamente sogna.

(4) pupassi Più che simili a sogni, i pensieri che si impossessano di lui, in quei momenti, sono immaginazioni indistinte, a metà tra il vago proponimento e il brivido compiaciuto che prova chi si ferma a immaginare di scalare impervie montagne, ben piantato nella poltrona del proprio salotto.
Il Mago vede una proiezione di se stesso discendere gradini fatti d’aria che congiungono la finestra al prato sottostante, il piccolo fantasma quindi si inoltra nel sottobosco, scomparendo dietro un vello verde chiaro di asparagina e pungitopo.
Come sempre, a questo punto il Mago si riscuote, perché gli sembra di sentire più chiaramente le voci del Giardino, sussurri che lo richiamano ad un’altra vita a cui aspirerebbe, se non ne avesse una così inspiegabile paura.
Sospirando ricorda a se stesso che le persone del piano di sotto, i silenziosi badanti delle macchine temporali, non gli permetterebbero mai di uscire dalla casa.

(una parentesi)

Sono, sia detto senza offesa per alcuno (e nemmeno per me), uno scrittore.
Da poco ho compiuto quarant’anni.
Da questi due verità quasi inconfutabili è nata la decisione di dare vita a questo blog.
Finora non avevo mai preso seriamente in considerazione l’idea di salpare a mia volta nel grande mare dei bloggers, preferendo di gran lunga il calduccio della mia casetta arroccata sulla scogliera, a guardare tutte quelle vele fantasticando il giorno in cui, in pompa magna, la capitaneria del porto sarebbe venuta ad invitarmi al Gran Viaggio sul transatlantico degli Scrittori.
Troppa fatica, tutto quell’ammainar di vele, curvarsi sudati sui remi… e poi gli schizzi salati, il vento, il torchio soffocante del sole…
Ovviamente sono stato abbastanza bravo, finora, a trovare calzanti giustificazioni per la mia naturale indolenza: il tempo sottratto al Grande Romanzo da scrivere, il mescolarmi al volgo dei semplici scribacchini virtuali (me, il Vate incompreso!) che narrano con dovizia di particolari il Gran Nulla quotidiano, il costo della connessione, l’indebolimento della vista, una particolarmente malevola congiunzione di pianeti, la concreta possibilità che un serial killer diventi il mio fan N.1 e mi uccida in modo efferato (di quest’ultima possibilità mi terrorizza soprattutto il corollario: essere utilizzato come argomento principale per una puntata di Porta a Porta… brrr!).
Poi, un bel giorno, intento ad occhieggiare il mezzo del cammin della mia vita che, come il pistolero cattivo sulla strada polverosa di mezzogiorno si avvicinava, implacabile… ecco che mi raggiunge l’Illuminazione!
A dire il vero la decisione non è stata così chiara e repentina, d’altra parte non credo di prendere una decisione chiara e repentina dal 1974, più o meno…
Mi ritengo un fan del grande Rob Brezny, l’astrologo di fama i cui responsi possono essere letti su Internazionale, oppure sul suo sito (http://www.freewillastrology.com/). Definirlo astrologo è quasi riduttivo, se prendiamo la parola per come è comunemente intesa in questi tempi e a queste latitudini (altro discorso se comprendiamo l’etimo originale, ed il compito reale di chi si professava astrologo, ovvero quello di aiutare a vivere pienamente il proprio destino, e non di fuggirlo!).
Ma non sono qui a tessere le lodi del buon Rob, chi fosse incuriosito non ha che da cliccare il link, o sfogliare Internazionale (cosa meritevole che consiglio a prescindere dagli astri).
Insomma, mentre ero intento a centellinarmi tutta l’uggia del mio venturo quarantesimo compleanno, mi imbatto in questo:


Che farai a mezzogiorno del 1 settembre 2014? Chi sarai? Fino a che punto avrai realizzato i tuoi sogni? Al servizio di che tipo di bellezza, verità, amore e giustizia ti sarai messo? I casi sono due. Ricordando il periodo dal 27 agosto al 21 settembre 2009, potrai dire con rammarico: “Ah, se avessi fatto partire il mio Grande piano quinquennale in quel momento favorevole…”. Oppure potrai pensare: “In questi ultimi cinque anni sono diventato davvero padrone della mia vita”.


Il mio Grande Piano Quinquennale.


Beh, non sono sicuro che battezzare un blog possa innescare un movimento che mi porti ad essere padrone della mia vita (anche se mi piacerebbe tanto crederlo!), come non sono sicuro di quasi il 90 % delle cose che mi riguardano… però, sbarrare la porta, scendere la ripida scalinata verso il porto, salire sulla barchetta e spingermi al largo, beatamente ignorante di navigazione… tutto questo, credo, ha un senso.


E quando lo troverò, sarete i primi a saperlo.


Sono stanco di terra.

(5) mago Inaspettato, un rumore dal piano di sotto. Poco più che un grattio, un sospiro di legno, un minuto tramestio che un orecchio estraneo alle sonorità della casa non avrebbe nemmeno registrato, equiparandolo al ronzio ticchettante delle stanze di orologi, o ai sospiri del Giardino.
Ma il Mago, che conosce ogni respiro di quelle mura, ha riconosciuto immediatamente il suono per quel che è, ed il suo cuore fa un balzo, spaventato dalle possibilità insperate e spaventose che vede schiudersi.
Il Mago attraversa la soffitta, lasciandosi alle spalle l’anfiteatro di bambole.
Timidamente, scalino dopo scalino, scende le scale polverose, aspettandosi (auspicandosi?) da un momento all’altro il timbro secco di una voce che lo rispedisca alle sue mansioni. Ma non incontra nessuno, nel suo tragitto. La Casa sembra disabitata, non fosse per la sua presenza e quella delle centinaia di orologi, che compulsivamente continuano a declamare le proprie ore.
La grande porta di legno della casa è aperta. Appena uno spiraglio, sufficiente al passaggio di una lama di luce che taglia obliquamente il grande soggiorno. Piccoli universi di polvere ruotano nell’aria.
Il Mago, un poco tremante, sospinge la porta, che sbuffando si apre del tutto. Sul gradino di pietra, dove già i primi ciuffi di erba s’infrangono, una piccola lumaca si spinge verso la luce.
Il Mago si prende il tempo di un bel respiro, e fa il primo passo.
Di fuori, il Giardino.

(6) Lettera M, i presto così a varare questa modesta imbarcazione, una barchetta con le pretese di un vascello, senza altro equipaggio che i miei sogni, a cui finalmente, dopo quarant’anni di esistenza biologica, ho deciso di dare libera uscita.
Il Mago forse un giorno uscirà dal Giardino, mi piace crederlo ma non ne ho la certezza.
I Giardini sono universi che hanno la caparbia velleità di tendere all’infinito, replicando le proprie fissazioni, germogliando nuove paure e compulsioni e tutte le malerbe della psiche.
Di certo, so che ormai è pressante la necessità di uscire dalla Casa del Tempo Fermo.
Dopo tutto non è tanto il bisogno di farmi conoscere (è la pubblicità, bellezza!), di gettare l’esca nella speranza di pescare il mio mecenate che mi coprirà d’oro e gloria… non riesco a trovarmi a mio agio nei più semplici convivi, figuriamoci nelle corti augustee!
Alla fine, credo, è semplicemente l’atto di prendere in mano una penna, seppur virtuale, e lasciarla scrivere, per qualcuno nascosto là fuori.
Il Mago, prima di diventare Mago, è un semplice ciarlatano, ed ha il sacro dovere di fingere di fronte al proprio pubblico in cerca di meraviglie.
A sua volta il ruolo del pubblico è quello di scoprire i trucchi, seguendo a stento il rapido movimento delle mani, fino al giorno in cui il Mago e il pubblico s’accorgono che il trucco è diventato perfetto. È nata la magia.
Questo piccolo blog è la traccia della mia penna sulla carta del mondo. Il mio scrivere è il mio essere. Nello scrivere cerco di assolvere un mio personale e intimo bisogno, che poi è banalmente quello di tutti: rendere il mio passaggio su questa terra, in qualche modo, significativo.
Sia detto senza offesa per nessuno, nemmeno per me.

(illustrazioni di Massimiliano Filadoro)

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